Perché sono Un'ATEA CRISTIANA

di Laura De Luca

con sei disegni originali di Diego Romano
e sei fotografie di Stefano Cavallo



Prefazione

don Ruggero RAMELLA
parroco Santa Maria Stella Mattutina - Roma

 

Introduzione
monsignor Piero CODA
docente di Teologia Sistematica alla Pontificia Università Lateranense
consultore del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso
membro della Pontificia Accademia Teologica
Presidente della Associazione Teologica Italiana




 

Premessa dell’autrice

Il cosiddetto corredo iconografico di questo libro è molto più di un corredo. E’ una sua parte sostanziale. Si deve a due professionisti diversi, che già vantano una discreta collaborazione reciproca in altri progetti editoriali.

Accomunano le due serie di immagini (disegni a china e inchiostri e fotografie) l’opzione per l’eleganza e per il rigore del bianco & nero.

 

 

Chi ha detto che la fotografia è il regno dei contrasti forti e dell’evidenza?

Per quanto vi aggrediranno cupi, taglienti ed angosciosi i toni dei disegni, altrettanto morbide ed avvolgenti vi culleranno le atmosfere delle fotografie…

In questo stesso modo appaiono anche i loro autori a chi li conosce.

Ho scelto di affidare al disincantato e tormentato Diego Romano l’illustrazione della pars destruens di questo journal. Benché impegnato in varie imprese umanitarie, Diego si presenta come un miscredente e un dissacratore, disperato dell’esilio forzoso che si è autoimposto da anni.

Per accompagnarmi invece nella pars costruens del mio rapporto con Dio, ho scelto di lasciarmi guidare dagli scatti del più giovane Stefano Cavallo (scrittore e musicista, oltre che fotografo). Credente integrale, totalmente abbandonato tra le braccia di Cristo,  e affidato alla sua speranza definitiva, Stefano guarda il mondo con un’ innocenza disarmante e quasi sconsiderata, che a volte risulta problematica …perfino per lui stesso!

Due autori e due individui diversissimi, così come perlomeno sembrano raccontarceli le immagini da loro firmate. Ma chissà che ad un occhio più attento i toni netti e scuri delle chine e le sfumature luminose delle stampe non svelino tutt’altro, ovvero il loro esatto contrario, suggerendoci una considerazione più generale… Forse il vero credente (credente fino al rischio di drammatiche disillusioni) è chi si costringe a vestire i panni dell’incredulo, a leggere il mondo in chiaroscuri violenti; forse il vero miscredente (fino al rischio di non dar credito neppure a se stesso) è chi si protegge dentro il rassicurante rifugio di una fede ereditata da altri…

Ma rischio di perdermi fuori tema.

 

 

Il terzo polo di questo progetto è sicuramente il mio testo.

E’ uno sforzo di lucidità estrema su tutto quanto attiene ad un rapporto personale con la trascendenza, che nel mondo attuale è un patrimonio sicuramente desueto. Ci sono dentro i vuoti della mia infanzia e tutta la metafisica che ho digerito all’Università. C’è un percorso di vita e di conoscenza che pretende riconoscimento e offre materia di riflessione. Ci sono i contributi inevitabili di chi mi ha indotto a disperare, ma anche l’eredità preziosa di chi mi ha insegnato a confidare e a confidarmi. Nonché a fidarmi.

 Non mancheranno i giudici e i censori di questo approccio che riconosco molto spregiudicato. Li aspetto col loro bagaglio di argomenti reali, ma liberi da preconcetti e, se possibile, anche da facili fraintendimenti, invitandoli inoltre ad esercitare un’attenzione globale alle parole, ai disegni e alle fotografie, da concepirsi come un unico insieme.

Personalmente, sono convinta che l’universo scritto e quello visivo possano e debbano contaminarsi con libertà, rafforzandosi a vicenda nella trasmissione di qualsiasi genere di idee.

Non ho il minimo timore che l’attenzione al mio diario possa essere diminuita o disturbata dalla fascinazione per le sue immagini, perché considero queste ultime una parte integrante del mio percorso, così come riconosco in entrambi i miei co-autori due aspetti conflittuali ma complementari della mia più profonda identità spirituale (sempre in bilico tra il disperare e l’affidami). Le presunte durezze dell’uno e le sedicenti tenerezze dell’altro completano le mie lacune e continuano a provocare le mie domande.

Rafforzandomi un dubbio molto produttivo: che forse l’ambiguità (il drammatico divario fra ciò che è e ciò che appare) sia un filtro necessario alla comprensione del mondo così come  all’intuizione stessa di Dio.

LDL

 

 

“Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede”.
(Joeseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo)

 

 

 



INDICE

 

  Perché sono un'atea

  1. Perché il nulla 

  2. Perché l'anima 

  3. Perché le immagini di Dio

  4. Perché le chiese tetre

  5. Perché la morte

  6. Perché il male
     

  Perché sono cristiana

  1. Perché il pane spezzato 

  2. Perché i martiri 

  3. Perché i santi e i mistici

  4. Perché la musica

  5. Perché la Storia

  6. Perché l'Altro
     


 

Atea cristiana. Cognome e nome. Sono io.

Atea di nascita, di famiglia. Come von Leibnitz, Pascal, Heidegger, Aldobrandini o Piselli.

Cristiana  di  scelta, ma è un nome che mi sono ritrovata addosso, neppure questo l’ho voluto io.

Questa non è una carta d’identità da ridere, è la mia.

Di Dio, non mi sono mai sentita figlia, ma Gesù mi inquieta, mi addolora, e quasi sempre mi dà le risposte. Quelle atroci, che non vorrei sentire. Di Gesù sono diventata ombra, copia sbiadita, indegno clone, immagine riflessa. Mi sta davanti come in uno specchio.

Cognome e nome: atea cristiana. Sono io.

Paternità: l’Universo, L’Atomo iniziale, insomma il Nulla.

Maternità: la terra, inclusi radici e vermi.

Segni particolari: un pane spezzato. Questo è il punto. Il punto e anche un gesto, la forma. Quello che significa, ma anche come è significato. Perché Gesù ha scelto proprio il pane?

Dentro di me, però questo è solo un segno invisibile, una cicatrice nascosta, una fame silenziosa; e dal momento che nessuno la vede, potrebbero anche confondermi con un’agnostica.

Invece no.

Cognome e nome: Atea Cristiana. I preti dicono: quel pane spezzato è l’Eucarestia, stacci attenta. E ci si riempiono la bocca ancor prima di ingoiarla davvero.

Io, è sempre troppo tempo che non ne mangio più. Eucarestia: “splendido dono”. Sono anni che non mi lascio donare.

Sono due millenni che cerco di capire quel pane spezzato, di entrare davvero nella sua mollica, laddove questo mondo mi offre solo durezze: carcasse e sassi.

 

Ma so perfettamente che capire è l’unica impresa che non dovrei azzardare.

Non mi resta che spiegare, o almeno provarci.

 

 

 

 

Perché sono un’atea

 

 

1.         Perché il nulla

 

Sono un’atea perché da bambina non riuscivo a immaginare il nulla. Non, senza spaventarmi. La maestra Leonardi aveva i polpacci grossi e spiegava la creazione del mondo.

-Prima della creazione, bambini, non c’era nulla. Provate a immaginare…Da quel nulla, Dio ha creato il mondo.

Aveva i polpacci grossi e un neo largo sulla guancia. La voce era terribile, nella dolcezza di quelle asserzioni senza confine:

- Prima della creazione non c’era… nulla.

Le ubbidivo, nel tentare di immaginare: sapevo che aveva ragione lei, ma questa certezza mi dava la vertigine.

…Via l’aula coi tendoni di tela grezza, i banchi di formica verdina, i padiglioni dipinti di giallo. Via il refettorio, via la pineta in cima alla collina. Via la collina, via casa mia, via la maestra Leonardi, via tutto e via tutti, salvo Lui.

 

La Vertigine. Avevo quattro anni e non riuscivo a concepire.

Lui, dove poggiava i Piedi? Già li pensavo con la lettera maiuscola. Piedi Maiuscoli, Piedi Infiniti, tutti avvolti in una nebbia. Ma non erano ammessi pavimenti, prati, ghiaie e sassolini, in quel Nulla. Non era ammesso un luogo, né tanto meno un tavolo con degli attrezzi, un sopra e un sotto, un’architettura, volte di cattedrali, un tanto e un poco…

Avrei voluto tanto ubbidirle, ma non ci riuscivo.

Allora aggrottavo la fronte. Sentivo la pelle corrugarsi, sentivo dentro la scatola cranica qualcosa che era leggero diventarmi piano piano pesante. Carcasse e sassi cominciavano a premere, già allora. E la Vertigine.

 

Ancora oggi mi prende, è sempre lei. Mi tira gli occhi da un’altra parte, dietro un sipario, e la fronte mi rimane sguarnita, perché è come se gli occhi se ne andassero chissà dove e io non potessi più seguirli, e allora rimango con una specie di miopia, con questo vuoto intorno e davanti…

 

Non avevo il coraggio di dirlo a nessuno, quello che la testa mi pensava: se non c’era che Nulla, chi era Lui, per permettersi di esistere?

Non ho il coraggio di dirlo neppure oggi: per tutto questo, Dio mi stava antipatico.

Sì, io ero una bambina cui stava antipatico Dio.

Perché Lui esisteva, e tutto il resto no. Allora l’unica vendetta possibile era cancellare Lui  pure. Ma non c’era cattiveria, dispetto. Era l’unica condizione, l’unica possibilità, che del resto non dipendeva da me: non credergli.

 

Ma la maestra Leonardi era già passata alle canzoncine. Il grillo e la formica, marcondinondirondello.

Il grillo e la formica mi consolavano, mi portavano al riparo. Di nuovo nell’aula coi tendoni di tela grezza, nella pineta in cima alla collina, in questo mondo pieno di esseri.

Dio, se ne stesse dove gli garbava. Ma glielo dicevano le mie cellule, non io. Glielo dicevano  i  miei  capelli,  i  miei  denti  da  latte, non io. Se  ne  stesse  nel  Nulla, oppure nel Tutto.  Dio che s’era degnato di crearci. Se ne tornasse al suo Vuoto, a pensare di inventare altri mondi, pieni di altri bambini, altri grilli, altre formiche.

 

Ma, poi nel lettino, ci tornavo, dentro a quel Nulla.

La cameretta aveva il pavimento di legno che odorava di buono. Invece Dio non era buono. Dio non si rivelava né da un odore né da un sapore né da un gesto. Aveva riempito il Nulla, ma nessuno sapeva dirmi il perché.

Se il Nulla c’era stato prima, e non era possibile immaginarlo, forse non era neppure possibile giustificare il mondo: il Nulla sarebbe potuto ritornare, e cancellarci di botto.

Il Nulla del Prima e del Dopo. Il Nulla era prima di Dio: il Nulla era più forte di Dio. Eccolo lì, in agguato.

Ancora era presto, ma già mi veniva incontro Lei, l’idea della Morte.

 

 

********

 

 

L’altra faccia del Nulla era l’Infinito, e pure l’Infinito provavo a concepire, ma in quest’altro viaggio mi guidava mio padre.

Quelle sere d’estate sul terrazzo, coi nasi per aria. Le mattonelle di travertino bianco, che di giorno mi accecavano. E le sue scarpe, di tela bianca. A quattro anni, del mondo si conosce solo quello che sta per terra.

-Parliamo dell’Universo?

-Ah, l’Universo non finisce mai.

-Come, mai?

Ripeteva “mai”, e ci metteva dentro una risata, un sospiro di grandezza, di sazietà, quasi un canto: quel “mai” era un atto di fede, la certezza di non morire, ma io ancora non lo capivo e cercavo solo di figurarmi il soffitto dell’universo. No, l’Universo non poteva avere soffitti, e allora quella trave di legno chiaro, che vedevo sopra la luna e i pianeti, mi sforzavo di spostarla sempre un po’ più su, anche se “più su” non era mai abbastanza.

-No… no, l’universo non finisce mai… -confermava lui.

Pure la vallata dell’Acqua Traversa, intorno, sembrava non finire mai, a Roma, in cima a Monte Mario. C’era la campagna, via Cortina d’Ampezzo che pareva lontanissima, qualche cantiere.

In meno di dieci anni, in quella vallata sarebbero cresciute case e quartieri, strade come via Fani e neanche vent’anni dopo, da lì sarebbero echeggiate le raffiche di mitra, quella mattina del sedici marzo millenovecentosettantotto, il giorno del sequestro Moro.

 

Nell’Infinito ci sono anche le raffiche di mitra? E in quel Nulla, fin dal Principio, c’erano già anche gli spari e le esplosioni? C’erano già tutte le guerre che sarebbero venute dopo?

 

Questo chiederei oggi a mio padre, se ci fosse ancora, se le sue scarpe di tela bianca non lo avessero portato da un’altra parte.

A Dio, invece, non mi viene da chiedere niente. Neppure adesso.

 

Ecco, allora, perché.

Perché  avevo solo questo Nulla alle spalle, nello spazio, e nel tempo, e questo Infinito sopra la testa, che era come se mi aspettasse,  chiedendo sempre di  essere  esplorato. Sarei salita  sopra un  razzo,  sarebbe stato semplicissimo. Missione NASA o Sputnik, non avevo paura. Ma di non trovare una fine, sì che non mi rendevo capace.

 

Insomma stavo tra due vuoti, e la Vertigine assomigliava al ponentino. Quando mio padre lo sentiva alzarsi, diceva:

-Senti che arietta? Andiamocene a ninna, .

Segno che pure le domande s’erano fatte troppo pesanti.

 

 

… Ma non erano ammessi pavimenti, prati, ghiaie e sassolini, in quel Nulla.
Non era ammesso un luogo, né tanto meno un tavolo con degli attrezzi,
un sopra e un sotto, un’architettura, volte di cattedrali, un tanto e un poco…”

Diego Romano
, I piedi di Dio, china e inchiostri, Roma, 2006

 

 

Perché sono cristiana

 

 

1.         Perché il pane spezzato

 

Sono cristiana perché oggi, quando vedo spezzare il pane, vedo Gesù. Vedo e rivedo le sue infinite rappresentazioni: Giotto. Michelangelo, Goya, Rossellini, Annibale Carracci, la Sindone, Antonello da Messina...Vedo quel suo sguardo che buca, che oltrepassa come un raggio “ics” e rende visibile tutto l’interno, tutta la storia. Però lo vedo come se fossi stata presente io pure. Io, proprio là, dentro il cenacolo. Lo so benissimo che non c’erano donne. Non mi interessa, lo vedo come se fossi stata una brocca posata sul tavolo, un oggetto sulla soglia, come se fossi stata un lembo della tunica di Pietro, di Giuda, oppure di Giovanni.

Come ha fatto Gesù a scegliere proprio il pane?

Nel pane c’è tutto. C’è l’acqua del cielo, c’è il frutto della terra, c’è la fatica dell’uomo e c’è la fame. Pane. Bisogno. Molliche e briciole eventualmente perfino per gli uccelli. Nessuno escluso.

Me lo vedo, quando ci sta seduto davanti. A noi apostoli, a noi uccelli, a noi sassi, a noi cosmo. Fate questo in memoria di me.

C’è stato per davvero, possiamo anche soprassedere sul fatto che quel pane sia diventato esattamente il suo corpo: le sue braccia, le sue mani, i suoi piedi, polsi bucati, il suo costato poi ferito, il suo sguardo che buca. Transustanziazione”, si dice. Possiamo anche soprassedere.

È la scelta di questa cosa, che non è solo una cosa, ad avermi fatto cristiana.

Avrebbe potuto scegliere il latte, l’acqua, le polpette. Ma no, ha scelto proprio il pane. Umile, di crosta e di mollica, il contraltare di quel nulla che mi faceva venire la Vertigine, il primo qualcosa del mondo.

Buono come il pane. Molle, cedevole, ma nello stesso tempo capace di darci il sapere, di tenerci in vita.

 

Da bambina mangiavo pane e mortadella. Mi passavano così, le ansie. Il nulla non mi risucchiava più, se avevo la pancia piena. Mio padre, da piccolo, si saziava con pane e olio, ma durante la guerra il pane era diventato nero. Era il mondo, che era nero, puzzava di ossido di zinco e di Zyklon B. Per i miei figli, invece, solo pane e cioccolata, (e ti pare poco?) purché il primo non diventi un accessorio. E nelle mani dei profughi kossovari, i pani sfornati alla meglio sembravano più bianchi. Pane e brodaglia, nelle celle di Dachau, e una volta i barboni che pietivano “pane” reclamavano in tal modo l’universo intero, il diritto di stare al mondo.

In Calabria il forno aveva una bocca nera, avrebbe potuto scendere direttamente nell’Inferno, o dall’Inferno salire fino a noi, con un sospiro. Il forno, il ventre, l’utero, la pancia della terra. Vomitava con eleganza un aroma che non ha eguali. La pro-zia Maria era piccola, rattrappita come una crosta bruciata, le mani giostravano le pale nere, posava sulla tavola pagnotte tonde come lune; spezzandosi tra quelle mani segnate, crepitavano come rami secchi, parlavano di una sofferenza antica quanto la storia.

-Mangiate, mangiate…- rideva sdentata, sapendo di sfamarci.

Crepitò anche sotto le Sue mani, con la stessa musica di sonagli e di terra? Per questa possibilità così terrestre sono cristiana. Crepitò forse, un attimo prima che lui dicesse:

-Prendete e mangiate…

Crepitò, e quello fu il suo assenso di cosa, il magnificat della farina al suo creatore, la sua risposta, il suo sì. Il pane accettò di diventare Dio: eccomi, disse.

 

 

Gesù lo spezzò, gli fece una ferita, anticipò il sacrificio. Senza sacrificio non c’è storia, senza un sacrificio che lo preceda, nessun uomo può resistere, nessuna vita ha senso.

Eccomi, disse il pane. Lui lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli. Il pane si schiuse come un giglio. Per questo sono cristiana. Crosta e mollica si infransero, terra e cielo si divisero, si spaccarono come le pietre del sepolcro, quello fu soltanto l’inizio.

Io c’ero, per lo meno mi sembra. C’ero, sentivo quella fragranza. Non era solo pane, era fiori di campo e cannella. Dalla ferita sulla crosta uscirono tutti i profumi e i puzzi dell’universo. Fetore di baracca di lager e aroma di incenso e di mirra. Da quella ferita in poi, tutto si rifuse e precipitò di nuovo in uno stesso impasto, eccolo da capo il crogiolo della storia, la sintesi della terra e del cielo, dell’uomo col suo Dio.

Come ha fatto Gesù a intuire una cosa simile, se non era Dio? Ma questo non ha importanza: io che resto senza Dio, ora non posso fare a meno di certe consolazioni.

 

A Cantalice, vicino Rieti, c’era un altro forno, che però era lo stesso forno, e anche se l’aspetto del pane era diverso, il sapore era sempre lo stesso.

Il pane è dappertutto lo stesso, e pure Gesù, che ha spiegato e ricapitolato la Storia, è dappertutto lo stesso.

Zia Dina era più grossa, più maestosa, dava al pane una forma più tonda, e prima di infornarlo, ci faceva una croce sopra:

-Dio ti benedica…la crosta e la mollica.

Zia Dina sacerdotessa contadina, zia Dina senza cultura, più potente di un grande teologo. Diceva quella frase con una voce fina, che era già preghiera, la musica le dondolava tra dente e dente, la preghiera precedeva il cibarsi, il gesto chiedeva scusa di dover addentare, di lì a poco, Dio. Due dita rugose di contadina segnavano i due bracci: verticale e orizzontale, la vita della terra e quella del cielo. Ma come ha fatto a capire, zia Dina, che la croce passa per il pane, e che è il pane la croce? Pane impastato di sudore e di polvere di strada. La croce dell’uomo, il lavoro dell’uomo, la strada dell’uomo.

Per questo sono cristiana, perché perfino zia Dina e milioni di altri come lei lo sono diventati, semplicemente, senza porsi domande, solo aprendo la bocca  per mangiare. 

 

E poi c’è il mistero del lievito. Il pane è sospiro pietrificato: un cielo che si è dilatato a tal punto da farsi cosa, da trasformare le proprie nuvole in mollica, da entrarci completamente dentro. Il pane è figlio di un miracolo: il pane è il Regno che cresce, dice la parabola. Io penso: il pane è l’emblema del qualcosa. Forse verrà un tempo in cui il nulla ci mangerà, ma per ora siamo noi a  mangiare il pane, siamo noi ad essere circondati dal mondo, qualcosa che ha avuto inizio e anche seguito. Forse il solitario zaffiro dell’universo non è del tutto solitario, non è del tutto cavo.

 

…Affondavo le narici nella mollica. Quella sera. La grazia di un tuffo nella morbidezza mi sanò  di  tutte  le  ferite,  le  passate  e  le  future. Era l’abbraccio di Dio alla sua creatura, e della sua creatura a Dio. La materia che finalmente trova un riscatto al nulla, quello delle Origini.

 

 

Saziate da quel sapore, le mie cellule osarono trasmettermi un messaggio: la Morte non esiste, lo sanno perfino i gigli e gli uccelli. “Si preoccupano, forse, i gigli di campo? E si preoccupano, gli uccelli del cielo?”

 

 Forse non ero che un uccello del cielo col becco posato su una briciola. Non mi preoccupavo di capire, soltanto attesi che si compissero quei gesti che continuano a compiersi ogni istante.

 Per questo sono cristiana, perché Cristo, forse un uomo e forse non solo, ci ha davvero sfamati.

  

 

 “Me lo vedo, quando ci sta seduto davanti.
A noi apostoli, a noi uccelli, a noi sassi, a noi cosmo. …”

Stefano Cavallo, Le rughe con le pietre, 28-80 mm, f 4,5
Castello di Alvito (Frosinone), 2003